Il conflitto siriano rappresenta un banco di prova molto interessante per la strategia dello “zero-problemi-con-i-vicini” inaugurata dal Ministro degli Esteri turco Davutoglu. In linea con la nuova linea di politica estera del “neo ottomanesimo”, questo approccio fortemente ideologico prevede l’instaurazione di relazioni pacifiche con i vicini, in vista di un riconoscimento della Turchia come Stato modello e portavoce degli interessi della regione.
In questo senso, la normalizzazione dei rapporti con la Siria non era stata una conquista facile, né tanto meno scontata, sia a causa delle antiche questioni di demarcazione del confine quanto per la spinosa questione curda. Per questo il repentino cambio di dialettica marcato da aspri toni critici nei confronti di Assad a seguito degli scontri con i ribelli non è stato esente da critiche, in particolar modo da parte dei militari che vedono di cattivo occhio l’iperattivismo internazionale del governo Erdogan. Tale strategia è infatti in netto contrasto rispetto a quella strenuamente perseguita dal Governo conservatore, che non solo si dimostrava moderato e prudente nelle scelte di politica estera, quanto anche esclusivamente focalizzato sull’Occidente, per quanto riguarda le relazioni internazionali. Grazie a questa scelta, non sempre a costo zero, la Turchia era riuscita a guadagnarsi un posto e una “rispettabilità regionale” nei confronti dei suoi alleati della Nato, seppur mantenendo per così dire uno splendido isolamento rispetto ai suoi vicini.
È proprio sulle spalle di tale “prestigio” accumulato per oltre mezzo secolo che sta vivendo oggi la politica, autodefinita “idealista” e “moralista”, di Erdogan e Davutoglu. Sarebbe però prudente domandarsi fin quando questa linea potrà essere sostenuta e in particolar modo, quali potrebbero esserne gli esiti. In primo luogo, nonostante la Turchia disponga del secondo esercito della NATO, questo primato è essenzialmente limitato alle sue dimensioni, in quanto l’armamentario è al contrario piuttosto obsoleto. Inoltre la popolazione turca stessa, pur manifestando forte solidarietà ai vicini siriani, è al contempo per la maggior parte contraria all’intervento armato. Erdogan non potrà fare a meno di tenere conto di questo fattore, dato che le elezioni si avvicinano, ed egli non può rischiare di veder incrinato una volta di più il suo consenso.
In ogni caso il quesito più significativo è l’esito di un intervento a sostegno dei ribelli. In questo senso la questione curda è al centro delle preoccupazioni. La minoranza curda siriana si è infatti ben guardata dallo schierarsi apertamente a favore di una fazione o dell’altra visto che il suo unico obiettivo è il raggiungimento dell’indipendenza o per lo meno il riconoscimento di significative concessioni e autonomie come nel caso dei Curdi del Nord Iraq, con i quali sono in stretti contatti. Di altrettanto rilievo sono altresì i rapporti con i Curdi turchi di oltre confine, che seguono con interesse gli sviluppi della situazione dei loro connazionali, forse in attesa di alzare la posta dei negoziati di pace avviati con la Turchia tramite la mediazione di Ocalan.
A complicare ulteriormente il quadro sono i profughi siriani accampati nei disastrosi centri di accoglienza al confine sud turco. La maggior parte di loro appartiene all’etnia alawita, minoranza presente anche sul territorio turco. Frequenti sono infatti i casi di solidarietà, se non di veri e propri ricongiungimenti in territorio turco. Per questo motivo, il loro numero crescente potrebbe alterare gli equilibri dei difficili rapporti interetnici in Turchia e complicare ulteriormente il processo di integrazione che non è mai stato davvero perseguito con vera convinzione.
Qualunque sia la decisione della Turchia rispetto alla sua strategia verso la Siria, essa sarà destinata ad avere ripercussioni profonde, data la prossimità e i legami che vincolano i due paesi l’uno con l’altro. È evidente che la Turchia contemplata da Erdogan avrebbe tutto l’interesse alla scomparsa di un governo come quello rappresentato da Assad, in ottimi rapporti con il mondo sciita, a favore dell’affermazione di un governo sunnita. Questa ipotetica transizione di potere andrebbe considerata anche in relazione a un conseguente ridimensionamento della sfera di influenza iraniana a tutto vantaggio dell’affermazione turca nella regione. In questo caso però non è affatto chiaro quale corrente riuscirebbe ad imporsi in Siria. Al momento non si vedono filoni sunniti ortodossi, quanto piuttosto correnti integraliste legate ai regimi del Golfo e dunque non troppo ben disposte nei confronti della Turchia, la quale si ritroverebbe comunque estromessa.
Alla luce di tutti questi fattori, sebbene Erdogan si stia prodigando in appelli altisonanti, appare molto improbabile che si vada oltre la retorica. In questo senso l’intervento unilaterale appare quasi totalmente escludibile, come anche poco probabile sembrerebbe un’operazione congiunta con gli altri Stati della regione. In ultima analisi la questione torna ancora una volta all’avallo del Consiglio di Sicurezza o quanto meno a un’operazione coordinata dalle forze NATO. Al di là delle condanne senza appello, il Primo Ministro Erdogan sembra ancora e sempre in attesa dell’ombrello USA.